SALVATORE RAIMONDI

Relazione al convegno su

Le informative antimafia: il delicato equilibrio della prevenzione”

Palazzo di giustizia di Palermo – 10 novembre 2023

Nel trattare delle informative antimafia non appare superfluo rammentare i tanti “omicidi eccellenti” che hanno insanguinato la Sicilia negli anni ’70 e ’80 sino ai primi anni ’90, poiché l’evoluzione legislativa della materia è stata, almeno in parte, occasionata da tali fatti; invero preceduti alcuni anni prima da altro grave fatto costituito dalla esplosione il 30 giugno 1963 di una autovettura (Giulietta) in Palermo, località Ciaculli, che provocò la morte di 7 tra artificieri e carabinieri.

Fatti precedentemente ai quali era diffusa nell’opinione pubblica, e verosimilmente nella classe politica presente nel Parlamento, la visione secondo la quale “si ammazzano tra di loro”.

Sono stati uccisi:

– nel 1971 il procuratore della Repubblica di Palermo Pietro Scaglione,

– nel 1977 il colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo, comandante del nucleo investigativo,

– nel 1979, il capo della squadra mobile di Palermo Boris Giuliano, il capo dell’ufficio istruzione del tribunale di Palermo Cesare Terranova, il cronista del Giornale di Sicilia Mario Francese

– nel 1980 il presidente della Regione Piersanti Mattarella, il capitano dei carabinieri Emanuele Basile, il procuratore capo di Palermo Gaetano Costa,

– nel 1982, il prefetto di Palermo generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, insieme alla moglie Emanuela Setti Carraro, nonché il segretario del P.C.I. siciliano Pio La Torre

– nel 1983, il capo dell’ufficio istruzione del tribunale di Palermo Rocco Chinnici, ed il capitano dei carabinieri Mario D’Aleo

– nel 1988 il presidente di Corte d’appello Antonino Saetta insieme al figlio Stefano, nonché Giuseppe Insalaco già sindaco di Palermo,

– nel 1992 il magistrato Giovanni Falcone insieme alla moglie, anch’essa magistrato, Francesca Morvillo e tre uomini della scorta Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani,

– nel 1992 il magistrato Paolo Borsellino con cinque agenti della sua scorta, Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.

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È altresì da rammentare che le misure legislative antimafia sono state precedute e accompagnate dai lavori di ben 11 commissioni parlamentari di inchiesta che si sono succedute nell’arco di oltre mezzo secolo.

Le commissioni parlamentari di inchiesta sulla mafia sono state istituite con leggi del 1962 (prima commissione), del 1982 (seconda commissione), del 1988 (terza commissione), del 1992 quarta commissione), del 1994 (quinta), nel 1996 (sesta), del 2001 (settima), del 2006 (ottava), nel 2008 (nona), nel 2013 (decima), del 2018 (undicesima).

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Ho voluto rammentare siffatte circostanze per sottolineare che il fenomeno mafioso, e la conseguente esigenza di contrastarlo, costituiscono nel nostro paese una costante che ci accompagna da oltre sessanta anni.

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Ciò posto, è certamente da condividere l’intento di prevenire ed interdire la presenza di operatori economici aventi contaminazioni con la criminalità organizzata.

Ed è meritoria l’opera che al riguardo compiono le prefetture.

Ma appaiono criticabili:

a) il modo in cui l’istituto dell’Informativa antimafia è disciplinato;

b) il modo in cui viene applicato dalle Prefetture;

c) l’orientamento che al riguardo ha assunto la giurisprudenza amministrativa.

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Per quanto concerne gli effetti è ricorrente, nella giurisprudenza amministrativa e nei commenti della stessa, l’affermazione secondo la quale l’informativa antimafia avrebbe un effetto cautelare e non sanzionatorio.

Tale affermazione, che costituisce il centro di gravità della giurisprudenza amministrativa nella materia, è destituita di fondamento.

L’informativa ha invece carattere afflittivo . L’imprenditore che ne è colpito non può più operare, non può concorrere al fine di aggiudicarsi un appalto, non può ottenere provvedimenti di concessione, contributi, ecc.

L’informativa, nella stragrande maggioranza dei casi, comporta la estinzione dell’attività economica dell’imprenditore, e quindi, in concreto, la morte dell’impresa.

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La terza sezione del Consiglio di Stato (competente in materia) è orientata nel senso che i provvedimenti prefettizi sono latamente discrezionali e quindi possono essere sindacati solo nei limiti della palese irragionevolezza, con la conseguenza che la totalità, o quasi, dei ricorsi che pervengono al Consiglio di Stato, contro le interdittive vengono rigettati; anche se, per avventura accolti in primo grado.

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Nell’interpretazione delle prefetture, suffragata dalla giurisprudenza, si passa dal tentativo al pericolo di tentativo, ed infine alla formula secondo la quale “non si può escludere” il tentativo di infiltrazione mafiosa. È ricorrente inoltre l’applicazione della regola del “più probabile che non” (in tal senso, tra le tante Cons. Stato, sez. III, 25 maggio 2021, n. 4061).

La giurisprudenza del Consiglio di Stato ha elaborato una costruzione dell’informativa antimafia che, fondandosi sul presunto, ma in realtà insussistente carattere non sanzionatorio della stessa, si ispira a criteri che non appaiono condivisibili.

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Per brevità mi soffermo soltanto su una delle più recenti sentenze del Coniglio di Stato apparsa in materia: sez. III, 6 luglio 2023, n. 7073.

Vi si legge: “La costante giurisprudenza di questo Consiglio di Stato ha già chiarito che il pericolo di infiltrazione mafiosa deve essere valutato secondo un ragionamento induttivo, di tipo probabilistico, che implica una prognosi assistita da un attendibile grado di verosimiglianza, sulla base di indizi gravi, precisi e concordanti, sì da far ritenere “più probabile che non”, il pericolo di infiltrazione mafiosa”.

E più avanti: – Il pericolo – anche quello di infiltrazione mafiosa – è per definizione la probabilità di un evento e, cioè, l’elevata possibilità e non mera possibilità o semplice eventualità che esso si verifichi”.

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Risulta evidente che in tal modo il contenuto della norma viene stravolto.

L’art. 84 del codice delle leggi antimafia non fa riferimento al pericolo di infiltrazione mafiosa ma al tentativo: “Le situazioni relative ai tentativi di infiltrazione mafiosa che danno luogo all’adozione dell’informativa antimafia interdittiva sono desunte…”.

La differenza tra i due concetti non è di poco conto. Il pericolo è una situazione meramente potenziale, mentre il tentativo si configura in presenza di azioni, compiute da uno o più mafiosi, tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi della società o impresa.

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Non appare superfluo rammentare che a criteri di maggiore ragionevolezza si era ispirata, alcuni anni or sono la giurisprudenza del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana (– che successivamente si è allineata alla giurisprudenza del Consiglio di Stato –), secondo la quale, per riscontrare il tentativo di infiltrazione mafiosa è necessario che venga individuato almeno un mafioso, e che vengano individuati atti idonei a condizionare le decisioni dell’impresa

Da quanto fin qui rilevato si può dedurre – inoltre – che perché si abbia un tentativo di infiltrazione mafiosa, occorre:

che venga individuato (almeno) un autore (o mandante) dell’azione rivolta alla realizzazione dell’evento pericoloso (essendo evidente che non può esservi tentativo di infiltrazione in assenza di un soggetto che lo compia);

che tale soggetto rientri in una delle categorie sopraindicate che consentono di qualificarlo (a cagione ed in ragione delle condanne o delle pendenze giudiziarie in atto, relative ai “reati-spia” indicati; ovvero in ragione della sua deliberata scelta di “contiguità da convivenza” che contraddistingua la sua condotta di vita) come “mafioso” o “presunto mafioso” nel senso tecnico (ormai più volte indicato) che la parola assume nella legislazione esaminata;

e che vengano individuati e descritti gli atti idonei, diretti in modo non equivoco, a conseguire lo scopo di condizionare le decisioni dell’impresa e della società che subisce l’infiltrazione  (C.G.A. 29 luglio 2016, n. 247. Nello stesso senso, Id., 3 agosto 2016, n. 257; Id., 28 agosto 2017, n. 379)

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È da sottolineare che l’informativa antimafia è ben più afflittiva delle misure di prevenzione – ci si riferisce a quelle applicate dall’autorità giudiziaria – perché la misura di prevenzione ha durata limitata (da un anno a cinque anni: art. 8 del cod. antimafia), ed inoltre dopo tre anni dalla sua cessazione l’interessato può chiedere la riabilitazione (art. 70).

Invece l’informativa antimafia interdittiva in concreto ha carattere solitamente perpetuo. Semel incolpatus semper incolpatus.

Non varrebbe per contro obiettare che l’informativa ha una validità di dodici mesi dalla data dell’acquisizione (art. 86, comma 2), ed è previsto il suo aggiornamento al venir meno delle circostanze rilevanti ai fini dell’accertamento dei tentativi di infiltrazione mafiosa (art. 91, comma 5).

Secondo la giurisprudenza del Consiglio di Stato il decorso del termine annuale non priva di efficacia il provvedimento emesso. L’amministrazione è tenuta ad emettere un’informativa liberatoria nei confronti dell’impresa solo laddove sopraggiungono elementi nuovi capaci di smentire o comunque superare gli elementi che hanno giustificato l’emissione del provvedimento interdittivo.

Le pubbliche amministrazioni, allorché sia decorso un anno dall’acquisizione dell’informativa: devono nuovamente acquisire la documentazione antimafia e quindi richiedere al prefetto una nuova informativa che è da considerare pienamente legittima, anche se si limita a richiamare gli elementi di quella precedentemente emessa, confermando il pericolo di infiltrazione mafiosa, laddove non sopraggiungono elementi nuovi  (Cons. Stato, sez. III, 5 ottobre 2016, n. 4121).

Il superamento del rischio di inquinamento mafioso è da ricondursi non tanto al trascorrere del tempo dall’ultima verifica effettuata senza che sia emerso alcun elemento negativo, bensì al sopraggiungere di fatti positivi che persuasivamente e fattivamente introducono elementi di inattendibilità della situazione rilevata in precedenza”  (Cons. Stato, sez. III, 22 gennaio 2014, n. 292).

Senonché l’impresa colpita dall’interdittiva non ha la possibilità di operare, e quindi non si vede come possa dimostrare la mancanza dei demeriti in relazione ai quali era stata interdetta.

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Il rigore al quale si è fatto riferimento è stato di molto accentuato a causa dell’interpretazione, sostenuta dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato, dell’art. 89 bis del codice antimafia, introdotto con il D.L. n. 153 del 2014, il quale così dispone:Quando in esito alle verifiche di cui all’articolo 88, comma 2, venga accertata la sussistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa, il prefetto adotta comunque un’informazione antimafia interdittiva e ne dà comunicazione ai soggetti richiedenti di cui all’articolo 83, commi 1 e 2, senza emettere la comunicazione antimafia” (comma 1). “L’informazione antimafia adottata il sensi del comma 1 tiene luogo della comunicazione antimafia richiesta (comma 2).

Secondo la giurisprudenza del Consiglio di Stato, con l’art. 89 bis la disciplina dell’informativa antimafia sarebbe stata estesa anche ai provvedimenti a contenuto autorizzatorio  (Cons. Stato, sez. III, 9 febbraio 2017, n. 565).

È da rammentare che l’art. 89 bis è stato introdotto nel codice antimafia attraverso il correttivo approvato con D.Lgs. n. 153 del 2014 1, art. 2, comma 1, lett. d),

Questo, a sua volta, trova la sua base nell’art. 2, comma 4, L. delega n. 136 del 2010 2:

Alla stregua dei principi e criteri direttivi di cui all’art. 2, comma 1, lett. a) ed f), della L. n. 136 del 2010, l’informazione antimafia è prevista per l’ipotesi in cui l’amministrazione debba stipulare contratti, rilasciare concessioni o disporre erogazioni, mentre in relazione ai procedimenti di natura autorizzatoria è prevista la semplice comunicazione antimafia.

L’informativa antimafia è stata sempre confinata al solo ambito dell’economia pubblica, vale a dire alle ipotesi in cui l’amministrazione attribuisce ai privati risorse e beni pubblici (appalti, concessioni, sovvenzioni).

L’orientamento secondo il quale, con l’introduzione del citato art. 89 bis, in concreto sarebbe venuta meno la distinzione tra comunicazione antimafia ed informazione antimafia non merita di essere condiviso.

L’interpretazione dell’art. 89 bis sopra indicata comporta un totale stravolgimento della disciplina dell’informativa antimafia, stravolgimento che non può essere considerato effetto della volontà del legislatore, il quale, se con il correttivo avesse voluto estendere la disciplina dell’informazione antimafia anche alle attività private soggette ad autorizzazione o ad iscrizione non si sarebbe limitato ad introdurre i due brevi commi dell’atto 89 bis, ma avrebbe apportato ben altre modifiche, tali da dare alla disciplina una nuova, coerente, impostazione.

Non appare superfluo aggiungere che Governo e Parlamento hanno avuto altra e più recente occasione per integrare il codice antimafia nel senso sostenuto dal Consiglio di Stato, costituita dalla L. n. 161 del 2017 3, con la quale agli artt. 25-28 sono state apportate modifiche agli artt. 84, 85, e 91. Ma le modifiche introdotte in tali articoli non portano acqua al mulino della sottoposizione dell’attività autorizzativa all’infor­mativa antimafia.

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Interpretandolo come sostiene il Consiglio di Stato l’art. 89 bis risulta costituzionalmente illegittimo, in primo luogo per eccesso di delega nei cui criteri direttivi non è contemplata l’estensione dell’informazione antimafia ai procedimenti autorizzatori. Sicché si configura l’illegittimità costituzionale della norma per violazione degli artt. 76 e 77, comma 1, Cost. che disciplinano l’istituto della delega legislativa.

In secondo luogo l’art. 89 bis risulta costituzionalmente illegittimo per violazione del principio di ragionevolezza sancito dall’art. 3 Cost.

Sotto il profilo della ragionevolezza è da osservare che la necessità di contrastare la diffusione dell’attività della criminalità organizzata può giustificare l’informativa antimafia interdittiva in relazione ai rapporti contrattuali, o di concessione, o di erogazione con la pubblica amministrazione, in quanto si tratta di denaro pubblico, o di beni pubblici.

Analoghe considerazioni non possono essere applicate in relazione all’economia privata, vale a dire in relazione alle attività nelle quali non si scambia pubblico denaro o altre utilità economiche attribuite dall’amministrazione.

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Non appare ragionevole escludere completamente dall’attività economica lecita soggetti ritenuti infiltrabili dalla mafia non in base ad accertamenti giurisdizionali, ma in base a valutazioni discrezionali e presuntive dell’autorità amministrativa, condotte spesso in base a massime di esperienza.

L’estensione dell’informativa antimafia alle attività private comporta che il soggetto che ne è colpito non può ottenere neanche l’iscrizione alla Camera di Commercio, sicché non può aprire un negozio, non può aprire un ristorante, non può ottenere un’autorizzazione per la vendita al dettaglio, non può presentare la segnalazione certificata di inizio attività (SCIA).

Non può neppure instaurare un rapporto di lavoro subordinato perché l’azienda presso la quale si impiegherebbe riceverebbe una informazione interdittiva per avere assunto un soggetto ritenuto infiltrabile dalla mafia.

In concreto dovrebbe scegliere tra dedicarsi ad attività illecite o morire di inedia.

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La questione di costituzionalità dell’articolo 89 bis D.Lgs. n. 159 del 2011, con riferimento agli artt. 76, 77, commi 1 e 3, Cost. era stata sollevata con ordinanza TAR, sez. Catania, 28 settembre 2016, n. 2337.

Ma è stata ritenuta non fondata dalla Corte costituzionale con sentenza 18 gennaio 2018, n. 4.

La Corte, ha sostenuto che l’art. 2, comma 1, lett. c) della L. delega n. 136 del 2010 ha inteso allargare il campo di applicazione dell’informazione antimafia, stabilendo che potesse esplicarsi “con riferimento a tutti i rapporti, anche già in essere, con la pubblica amministrazione”.

Con questa disposizione il legislatore delegante, osserva la Corte, ha concesso al legislatore delegato di prevedere l’interdittiva antimafia oltre che in relazione all’attività contrattuale della pubblica amministrazione, anche ai diversi contatti che con essa possano realizzarsi nei casi ora indicati dall’art. 67 del D.Lgs. n. 159 del 2011.

L’art. 67 disciplina gli effetti delle misure di prevenzione. Stabilisce che le persone alle quali esse siano state applicate non possono ottenere licenze o autorizzazioni di polizia e di commercio, concessioni di acque pubbliche, concessioni di beni demaniali, concessioni di costruzione e gestione di opere pubbliche, iscrizioni negli elenchi di appaltatori e di fornitori di opere, beni e servizi, riguardanti la pubblica amministrazione, contributi, finanziamenti o mutui agevolati, licenze per detenzione e porto d’armi, fabbricazione, deposito, vendita e trasporto di materiali esplodenti.

Nel contesto del D.Lgs. n. 159 del 2011, e sulla base della L. delega n. 136 del 2010, prosegue la Corte, nulla autorizza quindi a pensare che il tentativo di infiltrazione mafiosa, acclarato mediante l’informazione antimafia interdittiva, non debba precludere anche le attività di cui all’art. 67, oltre che i rapporti contrattuali con la pubblica amministrazione, se così il legislatore ha stabilito.

Naturalmente spetta alla giurisprudenza comune, conclude la sentenza, in sede di interpretazione del quadro normativo, decidere in quali casi e a quali condizioni il legislatore delegato abbia inteso attribuire all’informazione antimafia gli effetti della comunicazione antimafia.

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Il Tribunale di Palermo, sez. V specializzata in materia di impresa, con ordinanza 10 maggio 2018, nell’ambito di un giudizio avente ad oggetto la cancellazione di una ditta dall’albo delle imprese artigiane, ha sollevato:

questione di legittimità costituzionale degli articoli 92 co. 3° e 4° e 89 bis del d.l.vo 159 del 2011 in relazione agli articoli 3 e 41 della Costituzione, nella parte in cui non escludono dai divieti e dalle decadenze conseguenti all’informazione interdittiva antimafia i provvedimenti previsti dall’art. 67 del medesimo decreto che siano mero presupposto dell’esercizio del diritto di iniziativa economica privata”.

Anche questa volta la Corte costituzionale, con sentenza n. 57 del 2020 ha ritenuto non fondate le questioni di costituzionalità sollevate dal Tribunale di Palermo 4.

Nella motivazione della sentenza si fa riferimento in primo luogo alla relazione conclusiva del 7 febbraio 2018 della Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e delle altre associazioni criminali, anche straniere, istituita con L. 19 luglio 2016, n. 87, nella quale, si rileva, “che sono vulnerabili anche i mercati privati in particolari i settori connotati dall’elevato numero di piccole imprese, basso sviluppo tecnologico, lavoro non qualificato e basso livello di sindacalizzazione, dove il ricorso a pratiche non propriamente conformi con la legalità formale diviene prassi diffusa”.

Si fa poi riferimento alla giurisprudenza amministrativa, in particolare del Consiglio di Stato, su cui, si precisa, “si è a lungo soffermata la relazione sull’attività della giustizia amministrativa del presidente del Consiglio di Stato dell’anno 2020”. Al riguardo si sostiene, come di consueto, che l’interdittiva antimafia avrebbe “natura cautelare e preventiva comportando un giudizio prognostico circa probabili sbocchi illegali delle infiltrazioni mafiose”.

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Quanto al profilo della ragionevolezza prospettato dal giudice remittente la Corte non ritiene fondati i rilievi di questo a causa del (presunto) carattere provvisorio della misura. Testualmente: “nella valutazione com­plessiva dell’istituto un ruolo particolarmente rilevante assume il carattere provvisorio della misura”. Ma, come abbiamo sopra precisato, in realtà l’interdittiva antimafia comporta, quanto meno nella maggior parte dei casi, la morte dell’impresa.

1 D.Lgs. 13 ottobre 2014, n. 153, “Ulteriori disposizioni integrative e correttive al decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, recante codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136”.

2 L. 13 agosto 2010, n. 136, recante “Piano straordinario contro le mafie, nonché delega al Governo in materia di normativa antimafia”.

3 L. 17 ottobre .2017, n. 161 recante “Modifiche al codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, di cui al decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, al codice penale e alle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale e altre disposizioni. Delega al Governo per la tutela del lavoro nelle aziende sequestrate e confiscate”.

4 Corte cost. 26 marzo 2020, n. 57, in Giur. cost., 2020, 678, con nota di F.G. Scoca, Adeguatezza e proporzionalità nella lotta “anticipata alla mafia”. Su tale sentenza,A. Longo, La Corte costituzionale e le informative antimafia. Minime riflessioni a partire dalla sentenza n. 57 del 2020, in Nomos, 2020, 2.