La singolare, e potremmo dire “ibrida” figura dei protocolli di legalità trova il proprio fondamento legislativo, in primo luogo, nell’art. 83 bis del codice antimafia (“Il Ministero dell’interno può sottoscrivere protocolli, o altre intese comunque denominate, per la prevenzione e il contrasto dei fenomeni di criminalità organizzata, anche allo scopo di estendere convenzionalmente il ricorso alla documentazione antimafia di cui all’articolo 84. I protocolli di cui al presente articolo possono essere sottoscritti anche con imprese di rilevanza strategica per l’economia nazionale nonché con associazioni maggiormente rappresentative a livello nazionale di categorie produttive, economiche o imprenditoriali e con le organizzazioni sindacali, e possono prevedere modalità per il rilascio della documentazione antimafia anche su richiesta di soggetti privati, nonché determinare le soglie di valore al di sopra delle quali è prevista l’attivazione degli obblighi previsti dai protocolli medesimi. I protocolli possono prevedere l’applicabilità delle previsioni del presente decreto anche nei rapporti tra contraenti, pubblici o privati, e terzi, nonché tra aderenti alle associazioni contraenti e terzi ( .….).

3. Le stazioni appaltanti prevedono negli avvisi, bandi di gara o lettere di invito che il mancato rispetto dei protocolli di legalità costituisce causa di esclusione dalla gara o di risoluzione del contratto”; tale ultimo comma trova iterazione nell’art. 1, comma XVII della l. n. 190 del 2012. Ed è oggi, con riferimento all’ambito dei contratti con la pubblica Amministrazione, oggetto di sostanziale conferma da parte dell’art. 39, comma IX, del codice dei contratti approvato con d.l.vo n. 36 del 2023 (il quale, appunto, conferma l’attribuzione al Comitato di coordinamento del Ministero dell’interno del compito di monitorare la realizzazione di infrastrutture e insediamenti prioritari onde prevenire e reprimere i tentativi di infiltrazione mafiosa).

C’è un legame molto stretto tra la singolare figura in esame e due beni di rilievo generale: la protezione dell’ordine pubblico e la concorrenza. Con riferimento al primo, l’art. 6 del d.m. 21 marzo 2017 (Individuazione delle procedure per il monitoraggio delle infrastrutture ed insediamenti prioritari per la prevenzione e repressione di tentativi di infiltrazione mafiosa e istituzione, presso il Ministero dell’interno, di un apposito Comitato di coordinamento) stabilisce quanto segue: “le procedure per il monitoraggio delle infrastrutture e degli insediamenti prioritari per lo sviluppo del Paese ai fini della prevenzione e della repressione di tentativi di infiltrazione mafiosa, di cui all’art. 203, comma 1, del decreto legislativo n. 50 del 2016, si fondano in via prioritaria sulla stipula obbligatoria di appositi protocolli di legalità tra le stazioni appaltanti, i soggetti realizzatori, in qualunque forma di affidamento prevista dal predetto decreto legislativo, e le prefetture-uffici territoriali del Governo territorialmente competenti, al fine del monitoraggio antimafia, anche preventivo, di tutte le fasi di esecuzione delle opere e dei soggetti che le realizzano.

2. I contenuti dei Protocolli di cui al comma 1 sono definiti sulla base di linee-guida predisposte dal Comitato, le quali devono prescrivere l’adozione di specifiche clausole antimafia, ivi compreso l’obbligo di denuncia di eventuali tentativi di estorsione, che impegnino tutti i soggetti interessati a qualsiasi titolo alla realizzazione delle opere. Le linee-guida devono prevedere di poter valutare e sanzionare il comportamento delle imprese in caso di mancata osservanza di tali clausole.

3. Le procedure per il monitoraggio antimafia di cui al comma 1 possono essere applicate anche in ogni altra circostanza, anche di natura emergenziale, per cui esse siano previste dalle vigenti normative.

4. I protocolli di legalità e le linee-guida di cui ai commi 1 e 2 sono vincolanti per tutti i soggetti a qualsiasi titolo interessati alla realizzazione delle opere. Nei casi in cui contengano prescrizioni di carattere generale o schemi-tipo di protocolli di legalità, le linee-guida sono approvate e recepite in apposite deliberazioni del Comitato interministeriale per la programmazione economica (CIPE). Gli schemi-tipo di protocolli di legalità sono adottati obbligatoriamente per la stipula di cui al comma 1, fatta salva diversa deliberazione del CIPE, su proposta del Comitato.

5. Le misure per la prevenzione e la repressione di tentativi di infiltrazione mafiosa nella realizzazione delle infrastrutture e degli insediamenti prioritari per lo sviluppo del Paese comprendono il controllo dei flussi finanziari connessi alla realizzazione delle opere, secondo le modalità e le procedure di monitoraggio finanziario di cui all’art. 36 del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 agosto 2014, n. 114, e all’art. 203, comma 2, del decreto legislativo n. 50 del 2016”. Centrale risulta essere, qui, l’attività di “monitoraggio”, ovviamente legata in via più diretta alla protezione dell’ordine pubblico.

Quanto alla concorrenza, è significativo che il protocollo di legalità operi, nell’ambito dell’attività contrattuale con la p.a., tanto nella fase di scelta del contraente, quanto nella fase di esecuzione del rapporto.

La delibera n. 62/2020 del CIPE (pubblicata sulla GURI n. 23 del 29 gennaio 2021), che aggiorna l’approvazione dei protocolli tipo, ne stabilisce le direttive generali: “Gli impegni dei sottoscrittori del Protocollo sono gli stessi previsti dagli accordi di legalità ex delibera CIPE n. 62. Sono impegni di collaborazione e, in particolare:

prevenire il pericolo di ingerenze della criminalità organizzata, assunto da tutti gli operatori economici della filiera (compreso il contraente generale, l’appaltatore principale o la figura equivalente), per organizzare le attività di cantiere secondo modalità atte a comunicare all’Autorità giudiziaria e alla Prefettura competenti eventuali pressioni illecite, esercitate attraverso richieste di danaro, offerte di protezione, imposizioni di subappaltatori o di servizi di guardiania, etc., a prescindere che esse siano contrassegnate o meno dall’uso di minaccia o violenza. Il Protocollo contiene, a tal fine, la clausola risolutiva espressa, di cui all’art. 1456 del codice civile; in caso di omissione della denuncia l’imprenditore infedele verrà espulso dal ciclo dell’opera;

prevenire tentativi di corruzione e/o concussione che si siano in qualsiasi modo manifestati nei confronti dell’imprenditore o degli organi sociali o dei dirigenti dell’impresa, dandone comunicazione, da parte di tutti gli operatori economici della filiera, alla Prefettura e all’Autorità giudiziaria; anche in questa circostanza il Protocollo contiene la predetta clausola risolutiva espressa di cui all’art. 1456 del codice civile, che prevede l’esclusione dell’operatore economico non collaborativo;

osservare altri impegni di collaborazione in una logica condivisa e negoziata tra tutti gli operatori economici della filiera. L’eventuale inosservanza comporta previsione di penalità pecuniarie come ad esempio per la mancata vigilanza agli accessi ai cantieri, per l’inserimento reiterato di dati anagrafici errati e per il mancato aggiornamento dei dati in caso di variazioni. Le sanzioni sono proporzionate a seconda della gravità dell’infrazione commessa e dell’eventuale danno conseguente; se la mancata collaborazione continua, anche dopo contestazione e diffida del soggetto aggiudicatore, il Protocollo-tipo prevede nei casi gravi anche l’esclusione degli operatori economici, concretandosi una forma di grave negligenza”.

Gli obblighi contemplati da tali protocolli, insomma, tutelano un amplissimo ventaglio di beni di rilievo superindividuale. Tutto sommato, nel momento in cui il protocollo si collega all’attività negoziale della pubblica Amministrazione, l’interesse protetto dagli stessi è sempre costituito dalla corretta esplicazione del “gioco concorrenziale”: criminalità organizzata e corruzione, infatti, costituiscono elementi distorsivi del mercato, consentendo all’operatore criminale risparmi che, appunto, alterano significativamente una corretta competizione.

Tale circostanza, coerentemente, ha indotto il CGA, nella tuttora fondamentale decisione n. 32 del 2022, ad evidenziare l’anticipazione della soglia di tutela espletata dall’assunzione degli “obblighi protocollari” (chiamiamoli così).

Di questa decisione, resa in fattispecie in cui la Stazione appaltante aveva escluso l’operatore economico appunto per l’inosservanza dei doveri derivanti dal protocollo, colgo due aspetti interessanti (entrambi, a mio avviso, rimangono “indenni” anche a seguito delle modifiche del codice dei contratti):

  1. Il primo, di respiro generale, si iscrive – anche se solo in parte – in quella che icasticamente è stata definita la “civilizzazione del diritto amministrativo”.

Il fondamento della vincolatività del protocollo di legalità viene infatti rinvenuto, a un tempo, nel dovere di buona fede e di leale collaborazione “oltre che nella normativa antimafia e dei contratti pubblici”.

Una specie di ibrido, insomma, confermato pienamente dal fatto che le postille del protocollo, destinate ad inserirsi nel bando di gara e poi nel contratto, non sono qualificate in termini di clausole vessatorie: “le clausole vessatorie intervengono infatti in un rapporto pattizio, rispetto al quale la previsione di facoltà o poteri a favore di una delle parti non si accompagna a prerogative procedimentali (che invece connotano il potere amministrativo di esclusione dalla gara) atte a tutelare la posizione di controparte.

Sicché esse richiedono quella particolare sottoscrizione prevista dall’art. 1341 c.c.

A fronte di ciò, invece, i patti di integrità si inseriscono nel rapporto di diritto pubblico che si crea fra la stazione appaltante e il partecipante alla gara, individuando specifiche fattispecie “sanzionatorie” nell’ambito di un procedimento che si sviluppa con le garanzie tipiche del procedimento amministrativo, sicché viene meno la tutela della parte debole (del rapporto contrattuale), atteso che tutta la disciplina del procedimento amministrativo è volta ad assicurare la valorizzazione dei partecipanti al procedimento, così sostituendo la tutela preventiva (e formale) della specifica sottoscrizione con una più pregnante forma di apprezzamento della posizione privata”. L’orientamento, tra l’altro, è in armonia con quello della Cassazione, la quale ha anche di recente affermato, sia pure in fattispecie non identica, che “in tema di erogazione di contributi pubblici, al disciplinare che regola la fase attuativa e l’eventuale decadenza dal finanziamento non è applicabile l’art. 1341 c.c., perché esso accede al provvedimento autoritativo di riconoscimento del contributo mutuandone a pieno i connotati” (Cassazione civile sez. I, 23/03/2023, n.8280).

  1. Il secondo riguarda la tipologia di potestà che l’Amministrazione esercita allorché esclude ovvero risolve il rapporto a seguito dell’inosservanza degli obblighi protocollari. C’è una indubbia differenza formale, in quanto nel primo caso si tratta di potestà sicuramente autoritativa, nel secondo, probabilmente, di potestà paritetica (se è consentita l’espressione). In ogni modo, ciò potrebbe refluire sul riparto di giurisdizione, ma sul piano sostanziale non sembrano esserci differenze.

Accertare l’inosservanza del protocollo di legalità potrebbe costituire l’esito di una istruttoria complessa, quanto meno sul piano degli elementi di fatto.

Mi sembra allora molto significativa, da parte della decisione del CGA, il richiamo alla “riserva di amministrazione”: un richiamo il quale, a ben vedere, più che di carattere giuridico sembra addirittura essere di carattere logico. Mi spiego meglio.

Sappiamo tutti della inesistenza, appunto sul piano strettamente giuridico, di una vera e propria riserva di amministrazione. Il legislatore può invadere il campo del “provvedere” (con le leggi provvedimento, soggette sì ad un attento vaglio sul piano del rispetto del principio di uguaglianza, ma ammissibili in linea di principio); il Giudice amministrativo sottopone ormai a sindacato molto penetrante anche le valutazioni tecniche della pubblica Amministrazione: in ordine alle quali è ormai affermazione consolidata che gli “accertamenti di fatto” sono oggetto in ogni caso di una verifica assolutamente piena.

Nell’ambito di cui stiamo trattando la pronuncia, invece, mostra grandissima attenzione alla sfera dell’agire amministrativo. “A quanto sopra si aggiunge che la riserva di amministrazione in punto di ammissione dei concorrenti alle procedure di gara non delimita soltanto il profilo soggettivo dell’organo al quale è demandato il relativo potere ma anche la tipologia di attività che il medesimo compie. Invero, l’istruttoria demandata all’Amministrazione è connotata da profili di officiosità che non trovano corrispondenza, se non in minima parte, nel metodo acquisitivo, nel processo amministrativo, che invece, essendo un processo di parti fondato sul principio dispositivo, ha a disposizione anche il criterio probatorio della mancata contestazione e della mancata allegazione della prova o almeno del principio di prova. Di talché le due istruttorie non sono intercambiabili e la spedita istruttoria processuale si spiega e si giustifica anche in ragione del previo espletamento del procedimento amministrativo, che onera la parte pubblica di onerose attività di accertamento”.

Le due istruttorie, appunto, non sono intercambiabili: l’accertamento effettuato dall’Amministrazione non è sempre ripetibile in sede giurisdizionale. Un’attività di indagine in ordine alla contiguità con l’associazione criminale, alle ragioni che hanno indotto l’operatore economico a non denunciare, è molto difficilmente sindacabile da chi Amministrazione non è. Il limite (ecco ciò che il CGA coglie) non è tanto di ordine giuridico, quanto di ordine logico.

Altrettanta cura nel salvaguardare la sfera di azione amministrativa è espressa immediatamente dopo, con riferimento alla reazione che l’Amministrazione decide di adottare in esito all’inosservanza: “nel caso di specie, invece, il potere di accertamento riconosciuto espressamente all’Amministrazione dal patto di integrità e il potere di scelta in ordine alla “sanzione” applicabile devono poter essere dalla medesima esercitati attraverso una valutazione in concreto, prima che intervenga il giudice amministrativo. Nel caso in cui tale valutazione sia mancata, come nel caso di specie, il principio di separazione dei poteri, che in sede processuale trova emersione nel divieto sancito dall’art. 34 comma 2 c.p.a. (secondo cui il giudice non può pronunciare “con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati”), impedisce al giudice di pronunciarsi se non attraverso l’istituto processuale di cui all’art. 31 comma 3 c.p.a. e l’art. 34 comma 1 lett. c) c.p.a., quando cioè, esercitata l’azione avverso il silenzio o l’azione di adempimento, si tratti di attività vincolata o comunque non residuino margini di esercizio della discrezionalità e non siano necessari adempimenti istruttori. Nel caso qui controverso non solo residuano margini di apprezzamento del fatto e di discrezionalità in ordine alle conseguenze sfavorevoli irrogabili, ma si ravvisano anche esigenze di completamento dell’istruttoria, considerata anche la necessità di approfondire i presupposti di fatto dell’esercizio del potere escludente. La causa di esclusione derivante dall’asserita violazione del patto di integrità avrebbe quindi dovuto essere scrutinata dall’Amministrazione. Del resto, l’ANAC ha evidenziato, nella delibera n. 1120 del 22 dicembre 2020, che nemmeno nell’ipotesi in cui sia normativamente previsto un obbligo per le stazioni appaltanti di prevedere negli avvisi, bandi di gara o lettere di invito che il mancato rispetto dei protocolli di legalità sia causa di esclusione dalla gara o di risoluzione del contratto (obbligo introdotto dall’art. 3 comma 7 del d.l. n. 76 del 2020 che ha aggiunto l’art. 83 bis al d. lgs. n. 159 del 2011, comunque non applicabile ratione temporis al caso di specie), l’esclusione opera in maniera automatica, dovendo comunque le stazioni appaltanti, nel rispetto del principio di proporzionalità, “valutare l’idoneità della condotta a giustificare l’esclusione dalla gara” e adottare la sanzione espulsiva “in ottemperanza ai canoni del procedimento amministrativo che richiedono la garanzia del contraddittorio e l’obbligo di idonea motivazione delle scelte adottate”.

Era logico che, vigendo il d.l.vo n. 50 del 2016, l’esclusione dalla gara disposta (questo era l’oggetto della controversia) venisse ricondotta pertanto nel novero delle esclusioni facoltative.

Il ragionamento del Consiglio mi sembra oggi pienamente armonizzabile con il nuovo codice dei contratti, e mi pare ragionevole ricondurre la fattispecie ad una causa di esclusione non “automatica”. Dunque, all’art. 95 del d.l.vo n. 36 del 2023. La relazione redatta dal Consiglio di Stato allo schema definitivo del codice evidenzia quanto segue: “in sintesi, il “potere” demandato alla Stazione appaltante non riposa in una volizione, ma in un margine di apprezzamento della situazione concreta riconducibile al concetto di discrezionalità tecnica: apprezzata la sussistenza del presupposto enucleato nella disposizione di legge, la scelta espulsiva diviene necessitata. È stato pertanto considerato che l’aggettivo “non automatiche” (peraltro a più riprese utilizzato dalla giurisprudenza comunitaria e nazionale: cfr. Consiglio di Stato ad. plen., 27 maggio 2021, n. 9) meglio rendesse detto concetto, al contempo tracciando un confine chiaro rispetto alle cause di esclusione “automatica” annoverate nell’art. 94 (laddove nessun margine di apprezzamento è rimesso alla stazione appaltante, che deve limitarsi a riscontrarne la sussistenza)”.

Il crinale, insomma, della differenza, chiarissima sul piano dei principi astratti, a volte meno allorché si tratta della fattispecie concreta, tra discrezionalità tecnica ed amministrativa. Apprezzare il rispetto o meno del protocollo di legalità non implica valutazioni relative all’interesse pubblico strettamente inteso, ma certamente non è attività di quelle il cui esito si definisce “a rime obbligate”.

In questo senso il recupero di un automatismo espulsivo, automatismo che è tale, però, unicamente se il presupposto “a monte” viene ritenuto sussistere.

Molto significativo, sotto questo profilo, è il fatto che, allorché l’art. 98 del ridetto codice definisce l’illecito professionale grave (quello che, appunto, dà luogo alla potestà di esclusione non automatica), si riferisce, al comma II lettera C alla “idoneità del grave illecito professionale ad incidere … sull’integrità dell’operatore”; e, al comma III lettera F alla “omessa denuncia all’autorità giudiziaria da parte dell’operatore economico persona offesa dei reati previsti e puniti dagli articoli 317 e 629 del codice penale aggravati ai sensi dell’articolo 416-bis.1 del medesimo codice salvo che ricorrano i casi previsti dall’articolo 4, primo comma, della legge 24 novembre 1981, n. 689. Tale circostanza deve emergere dagli indizi a base della richiesta di rinvio a giudizio formulata nei confronti dell’imputato per i reati di cui al primo periodo nell’anno antecedente alla pubblicazione del bando e deve essere comunicata, unitamente alle generalità del soggetto che ha omesso la predetta denuncia, dal procuratore della Repubblica procedente all’ANAC, la quale ne cura la pubblicazione” (l’omessa denuncia del reato di associazione di tipo mafioso è appunto uno degli esempi di violazione di un “obbligo protocollare”).

Altrettanto mi sembra di potere dire in ordine alla tenuta della potestà di esclusione con il principio di tassatività delle cause, adesso oggetto di sostanziale conferma da parte dell’art. 10 del nuovo codice, e della perdurante validità della trama di principi di cui alla delibera ANAC n. 1120 del 22 dicembre 2020.

di Piero La Spina, Avvocatura dello Stato