Un saluto alle autorità presenti e a tutti gli intervenuti a questo interessante consesso.

Permettemi di iniziare il mio intervento con un ringraziamento davvero sentito nei confronti del Presidente Immordino e dell’associazione tutta degli Avvocati Amministrativisti della Sicilia per avere voluto a questo tavolo anche la voce di una Pubblica Amministrazione territoriale, dimostrando ancora una volta spiccata sensibilità nel volere affrontare argomenti spinosi – come quello odierno – da tutti i punti di vista.

Quando mi è stato chiesto di intervenire mi sono posta la domanda su quale ruolo ha avuto, ha e può avere la P.A. “di frontiera” nella ricerca del “delicato equilibrio della prevenzione”, come ci induce a riflettere il titolo del convegno.

La prima risposta che mi è venuta in mente è stata quella di Woody Allen nel film “Il dittatore dello stato libero di Bananas” del 1972: “Il mio grado nell’esercito? Ostaggio, in caso di guerra”.

Sembra una battuta, ma non lo è!

La P.A. ha a lungo subito– e non è certo l’unica- la stratificazione di interventi normativi non sempre coordinati tra loro. Una vera e propria esondazione legislativa- in parte motivata, come dice il Presidente Caringella, dalla “ansia da riforma risolutiva”- caratterizzata: da un lato, da una normazione di estremo dettaglio, che mortificava l’esercizio della discrezionalità; dall’altro, dal crescente rischio di avvio automatico di procedure di accertamento di responsabilità amministrative, civili, contabili e penali.

Questo aspetto, sommato alle disfunzioni date da situazioni di contesto ed ai deficit strutturali interni (come ad es.: il blocco del turn over per lunghi anni; e la perdurante apposizione della clausola legislativa dell’invarianza finanziaria), hanno reso la P.A. “ostaggio”.

Proprio in ordine al contesto delle “Informative Antimafia”, vanno svolte considerazioni distinte e partite ratione temporis.

Fino a quando il legislatore ha mantenuto la possibilità per le Prefetture di adottare le c.d. informative antimafia “atipiche” (fondate su meri indizi), era consentito alla stazione appaltante di valutare discrezionalmente se avviare o proseguire i rapporti contrattuali. In questo caso l’interdittiva, ancorché non priva di effetti nei confronti della P.A., non ne comprimeva interamente l’autonoma capacità di apprezzamento delle circostanze ivi evidenziate. Ne derivava che il mantenimento o la risoluzione del rapporto contrattuale doveva esser comunque il frutto di una scelta motivata della stazione appaltante.
Con l’approvazione del codice antimafia è stata abrogata l’informativa c.d. atipica nei presupposti e, soprattutto, negli effetti.

Riforma che ha avuto di certo il pregio di fornire maggiori garanzie di legalità attraverso la concentrazione della potestà autoritativa in capo al soggetto a ciò preposto; ha avuto, però, il difetto di aver sottratto alla P.A. territoriale il legittimo esercizio di una discrezionalità “di prossimità”.

Allo stato attuale della legislazione, quindi, le informative differiscono, anche notevolmente, nei presupposti, ma sono tutte tipiche negli effetti (visto che determinano sempre l’impossibilità di contrarre – o l’impossibilità di erogare sovvenzioni pubbliche – o, piuttosto, l’interruzione del rapporto negoziale già avviato) senza lasciare alcun margine di apprezzamento alle pubbliche amministrazioni coinvolte in tali rapporti.

Si potrebbe, allora, pensare che l’esercizio di tale potere non comporti alcuna criticità per la P.A. Invece, non solo le problematiche continuano a sussistere, ma variano a seconda se l’informativa interviene nella fase genetica o piuttosto nella fase esecutiva del rapporto.

Diversa è l’incidenza e diverse sono le conseguenze che si riverberano – in un’ottica preclusiva – sui rapporti P.A.-Impresa.

Con riferimento alla fase genetica dei rapporti con la P.A., l’art. 94, comma 1, del d.lgs. n. 159/2011 prevede innanzitutto che i soggetti di cui all’art. 83 del medesimo decreto legislativo, “cui sono fornite le informazioni antimafia interdittive, non possono stipulare, approvare o autorizzare i contratti”. In ordine ai contratti di appalto, il solo dato letterale della norma spingerebbe a ritenere che il divieto sia rivolto alla fase di conclusione degli stessi.

Invero, una lettura così restrittiva era ammissibile fintanto che è rimasta in vigore la previsione del vecchio art. 38 del d.lgs. n. 163/2006, che non includeva tra le cause di esclusione dalla procedura di evidenza pubblica la sussistenza di cause ostative ai fini antimafia, con la conseguenza che una interdittiva non impediva la partecipazione alla gara, bensì soltanto la stipula del contratto. In tal modo era consentito al privato, nelle more dell’espletamento della gara, di agire innanzi al giudice amministrativo per tentare di ottenere l’annullamento giudiziale del provvedimento interdittivo.

Muta il quadro normativo con l’entrata in vigore del d.lgs. n. 50/2016, visto che la disciplina relativa ai requisiti propedeutici all’accesso alle gare pubbliche è animata dalla volontà di anticipazione della verifica di affidabilità dell’impresa in un’ottica di progressiva strutturazione del rapporto di “fiducia” impresa -P.A., ora consolidato nel nuovo Codice.

L’art. 80 del d.lgs. n. 50/2016, infatti, prevede- alla stessa stregua dell’attuale art. 94 del d.lgs 36/2023- che costituisce motivo di esclusione dalla gara la sussistenza, con riferimento ai soggetti indicati al comma 3, di cause di decadenza, di sospensione o di divieto previste dall’art. 67 del d.lgs. n. 159/2011, o di un tentativo di infiltrazione mafiosa di cui all’art. 84, comma 4, del medesimo decreto. Ne consegue che all’impresa attinta da informativa interdittiva antimafia è impedita non soltanto la stipula del contratto, ma anche la possibilità di accedere alla procedura di gara. La ratio dell’onere dichiarativo sancito dall’art. 80 del d.lgs. n. 50/2016 è, per l’appunto, quella di permettere alla stazione appaltante di conoscere fin da subito circostanze che possano minare – o, come nel caso dell’interdittiva, escludere ab origine – l’affidabilità del concorrente.

La lettera dell’art.80 ha lasciato ampi margini di interpretazione, alimentando negli anni non poco contenzioso.

Specificatamente in ordine al segmento di interesse, mi limito qui a ricordare un parere precontenzioso dell’ANAC – Delibera n.87 del 8 marzo 2023- che si è espresso proprio sulla portata applicativa dell’art. 80 comma 2 e sulla discrezionalità riservata alla P.A. nel considerare la sussistenza di un “tentativo di infiltrazione mafiosa” ai sensi dell’art.84 comma 4.

Il parere prende le mosse da un caso occorso ad una stazione appaltante che, in fase di gara, veniva informata da società mandante di costituendo R.T.I. dell’avvenuta adozione, nei propri confronti, della misura dell’amministrazione giudiziaria prevista dall’art. 34 d.lgs. n. 159/2011. La stazione appaltante, ritenendo- nonostante la società non fosse mai stata attinta da un’informativa antimafia interdittiva- che i fatti accertati potessero integrare una delle condizioni che, ai sensi dell’art. 80, comma 2, precludevano la partecipazione alle gare pubbliche, avviava il procedimento per la revoca dell’ammissione e la conseguente esclusione dalla gara del costituendo RTI. La levata di scudi degli amministratori giudiziari nominati dal Tribunale induceva la stazione appaltante a coinvolgere l’ANAC.

Ai nostri fini è interessante rilevare che ad avviso della stazione appaltante il dubbio fosse sorto a causa della formulazione letterale del predetto comma 2 che, nel definire la condizione di esclusione dalla gara, richiama il solo comma 4 dell’art. 84 d.lgs. n. 159/2011 che, a sua volta, elenca i casi da cui sono desumibili le situazioni relative a tentativi di infiltrazione mafiosa che danno luogo all’adozione dell’informazione antimafia interdittiva. La stazione appaltante aveva così ritenuto che, ai fini dell’integrazione della causa di esclusione, potesse essere sufficiente l’accertamento della sussistenza di una delle situazioni di fatto descritte dal legislatore, senza che fosse necessariamente adottato un provvedimento prefettizio interdittivo, a cui il Codice dei contratti non sembrava fare alcun espresso riferimento.

L’ANAC si pronuncia a sfavore di un tale tipo di interpretazione, adducendo ragioni riconducibili in breve a quanto qui riportato: “Considerato che, a fronte di un sistema così complesso, fondato sul delicato equilibrio tra tutela dell’ordine pubblico e libera iniziativa economica, il riconoscimento di uno spazio di discrezionalità alla stazione appaltante nella valutazione, ai fini dell’ammissione alla singola gara, di circostanze fattuali il cui apprezzamento è riservato ex lege al Prefetto ai fini dell’interdittiva, appare foriero di incongruenze logico-giuridiche perché idoneo a creare una sorta di doppio binario che rischierebbe di rendere il quadro normativo complessivamente incoerente, stante la mancanza di norme di coordinamento. La valutazione della sussistenza di tentativi di infiltrazioni mafiosa da parte della stazione appaltante anche in assenza di una interdittiva prefettizia infatti si sovrapporrebbe, contrastando potenzialmente con essa, alla competenza riconosciuta al prefetto in materia e rischierebbe di privare di qualsiasi significato l’iscrizione nella white list, l’elenco di fornitori, prestatori di servizi ed esecutori di lavori non soggetti a tentativi di infiltrazione mafiosa di cui all’art. 1, comma 52, l. 190/2012, che invece, ex lege, «tiene luogo della comunicazione e dell’informazione antimafia liberatoria anche ai fini della stipula, approvazione o autorizzazione di contratti o subcontratti relativi ad attività diverse da quelle per le quali essa è stata disposta» (1, comma 52-bis, l. 190/2012). Inoltre, come ben esemplificato nel caso in esame, si porrebbe in insanabile contrasto, vanificandone gli effetti, con le misure di tipo terapeutico finalizzate al recupero aziendale, che, secondo il Codice Antimafia, sospendono l’effetto dell’interdittiva, ma che, paradossalmente, si rivelerebbero cedevoli rispetto al provvedimento di esclusione della singola stazione appaltante”.

Per quanto la soluzione prospettata dall’ANAC convinca nella logica complessiva del sistema, non si può negare che la scelta espositiva del legislatore può essere foriera di dubbi interpretativi e applicativi. Incertezza a cui il legislatore del nuovo codice non ha ritenuto di dover porre rimedio, ricalcando all’art.94, comma 2 la formulazione del vecchio art. 80 proprio nella parte in cui recita: “…È altresì causa di esclusione la sussistenza, con riferimento ai soggetti indicati al comma 3… di un tentativo di infiltrazione mafiosa di cui all’articolo 84, comma 4, del medesimo codice…”. Al netto di questa considerazione, va detto, però, che la novazione del Codice ha indubbiamente attuato un processo di sistematizzazione e semplificazione normativa rispetto al precedente d.lgs. n. 50/2016.

Già da una prima lettura appare evidente che il perimetro normativo del nuovo Codice dei contratti pubblici si è ampliato: recepisce ed integra tutti gli istituti del Codice antimafia, sia nel sistema di selezione dei contraenti, che nella fase dell’esecuzione dei contratti stipulati con la Pubblica Amministrazione. La ratio principale del nuovo Codice degli appalti, alla stessa stregua del Codice antimafia, è quella di individuare in via cautelativa il pericolo di infiltrazione mafiosa nell’economia e nelle imprese. Infatti, il Codice del 2023 pone maggiore enfasi sui “requisiti di ordine generale” e stabilisce una serie di cause di esclusione che individuano con precisione ed in via anticipata i soggetti autorizzati a partecipare alle procedure di gara. A tal riguardo, il nuovo Codice ha inteso operare uno snellimento ed al contempo una semplificazione della normativa, al fine di renderla più comprensibile e di facile portata. Nello specifico, l’istituto delle “cause di esclusione” -contenuta prima in disposizioni lunghe e farraginose- oggi è splittata in più articoli: all’art. 94, le cause di esclusione “automatica”; all’art. 95, cause di esclusione “non automatica”; all’art. 96, la disciplina dell’esclusione; all’art. 97, le cause di esclusione di partecipanti a raggruppamenti; all’art. 98, l’illecito professionale grave.

La ricerca di chiarezza e di sintesi è intellegibile nella lettura congiunta e sistematica dei predetti articoli, redatti con occhi attenti agli allert della UE ed alle sollecitazioni degli orientamenti giurisprudenziali maturati nel tempo.

A titolo meramente esemplificativo, si ricorda il supplemento di chiarezza in ordine a:
1) i requisiti generali e speciali e la necessità che debbano essere posseduti dai candidati non soltanto alla data di scadenza per la presentazione della domanda, ma- senza soluzione di continuità- per tutta la durata della procedura fino all’aggiudicazione del contratto, la stipula e l’esecuzione dello stesso. Ne consegue che l’impresa attinta da informativa è inabilitata a presentare la propria candidatura ad una procedura di evidenza pubblica così come, a fronte di un provvedimento interdittivo intervenuto nel corso di un giudizio sull’affidamento di un servizio, diventa impossibilitata ad ottenere il c.d. “bene della vita”;
2) il limite di operatività della causa di esclusione di cui all’articolo 84, comma 4 nel caso in cui “entro la data dell’aggiudicazione, l’impresa sia stata ammessa al controllo giudiziario ai sensi dell’articolo 34-bis del medesimo codice”. Previsione che facilita un efficace raccordo tra la regolamentazione della fase di gara e l’istituto preventivo di vigilanza e controllo senza, però, legittimare alcuna dilazione all’aggiudicazione in ragione della pendenza del procedimento suindicato;
3) le informazioni antimafia interdittive adottate nei confronti di imprese facenti parti di RTI;
4) le informazioni antimafia interdittive adottate nei confronti di consorzi.
In ordine ai RTI ed ai Consorzi, vista la complessità degli aspetti trattati, è forse il caso di fare una piccola digressione giusto per comprendere la portata innovativa e chiarificatrice del nuovo Codice.

È noto che l’adozione di un’informazione antimafia interdittiva genera particolari effetti nell’ipotesi in cui l’impresa destinataria di tale misura faccia parte di un raggruppamento temporaneo d’imprese ovvero di un consorzio.

In entrambi i casi l’interdittiva riguarda il singolo operatore economico e non l’intero raggruppamento (o consorzio). Ragione per cui, il disposto normativo prevede talune deroghe alla regola generale del divieto di partecipazione alle gare pubbliche e di stipulazione del contratto nonché del recesso dal contratto ove già stipulato. L’art. 95 del d.lgs. n. 159/2011, infatti, stabilisce che se taluna delle situazioni da cui emerge un tentativo di infiltrazione mafiosa interessa “un’impresa diversa da quella mandataria che partecipa ad un’associazione o a un raggruppamento temporaneo di imprese, le cause di divieto o di sospensione di cui all’art. 67 non operano nei confronti delle altre imprese partecipanti quando la predetta impresa sia estromessa o sostituita anteriormente alla stipulazione del contratto”. Lo stesso art.95 comma 1 dispone, peraltro, che la sostituzione possa essere effettuata anche “entro trenta giorni dalla comunicazione delle informazioni del Prefetto qualora esse pervengano successivamente alla stipulazione del contratto”.

Il codice antimafia, nel caso in cui l’aggiudicatario di un appalto sia un RTI, dispone, quindi, chiaramente che l’inibitoria antimafia che colpisce l’impresa mandante all’interno del raggruppamento non impedisce di per sé la costituzione né la prosecuzione del rapporto di appalto, sempre che la stessa mandante sia estromessa o sostituita entro i termini predetti.

Il codice antimafia non disciplina, invece, l’ipotesi in cui sia l’impresa mandataria ad essere colpita dalla l’informativa interdittiva antimafia. Questa lacuna è stata negli anni colmata grazie al codice degli appalti.

In merito va detto che i previgenti Codici dei Contratti pubblici recavano norme sostanzialmente sovrapponibili (rispettivamente l’art. 37, commi 18 e 19, del d.lgs. n. 163/2006 e l’art. 48, commi 17 e 18, del d.lgs. n. 50/2016) prevedendo che, nel caso in cui l’inibitoria antimafia colpisse il mandatario di un RTI affidatario di un appalto pubblico, la stazione appaltante proseguisse il rapporto di appalto con altra impresa mandataria purché avente i requisiti di partecipazione adeguati ai lavori, o servizi o forniture ancora da eseguire. Non sussistendo tali condizioni, la stazione appaltante poteva recedere dal contratto.

Il precedente quadro normativo si componeva, quindi, da un lato con l’art. 95 del d.lgs. n. 159/2011 (che prevedeva la sostituibilità mandante); e dall’altro con l’art. 37, commi 18 e 19, del d.lgs. n. 163/2006 – poi sostituito dall’art. 48, commi 17 e 18 del d.lgs. n. 50/2016 (a cui si doveva la previsione della sostituibilità della mandataria).

La giurisprudenza ha, poi, chiarito che la disposizione di cui all’art. 37, comma 18 surriferita (e quindi, anche dell’art. 48, comma 17), sulla sostituzione dell’impresa mandataria, si applicava anche nel caso in cui l’incapacità conseguisse all’adozione di un’interdittiva antimafia benché il codice antimafia di cui al d.lgs. 159 del 2011, all’art. 95, comma 1, consenta la sostituzione solo della mandante e non della mandataria. Il giudice amministrativo ha così chiarito nel tempo che la previsione dell’art. 95, comma 1, del codice antimafia rivolta espressamente alle sole imprese diverse dalla mandataria, non equivaleva a dire che il legislatore avesse previsto la sostituibilità delle sole mandanti e non anche delle mandatarie. Ciò perché la sostituibilità dell’impresa mandataria rientrava già nella prospettazione normativa del codice degli appalti.

La problematica interpretativa è stata ampiamente superata proprio dalla scelta linguistica operata dall’art.97 del nuovo codice, dove le locuzioni “mandatario” e “mandante” sono state più semplicemente sostituite con quella di “partecipante”. Senza, peraltro, distinzione alcuna tra la “fase di gara” e “l’esecuzione del contratto” (già in vero superata con l’art. 48 del d.lgs n.50/16 integrato con il correttivo 2017).

Non di minore rilievo sono gli interventi in caso di consorzi, dove – sulla falsariga delle spinte Ue e delle conseguenti pronunce giurisprudenziali (ed, in specie, AD Plen n.5 e n.9 del 2021 e n. 2 del 2022) – si è abbandonato l’iniziale principio “dell’immutabilità soggettiva” dei concorrenti nella gara per dare definitivamente spazio alla “immodificabilità oggettiva” dell’offerta. Anche in questo caso il dettato legislativo non è altro che il frutto del superamento di posizioni restrittive ascrivibili al fenomeno del “contagio” automatico dell’effetto interdittivo (Cons. Stato, Sez. III, ord. 5 settembre 2019, n. 4404) ed alla progressiva legittimazione dell’ipotesi estromissiva e, cioè, alla modifica per riduzione dell’operatore economico con identità plurisoggettiva.

Una legislazione che è stata salutata dai più e anche dalla P.A. come un volano di buone pratiche, visto che appare evidente che l’obiettivo del portato normativo non è più lo svolgimento della gara ma la conclusione di un contratto che assicuri il miglior rapporto tra qualità della prestazione, prezzo e tempistica di realizzazione per una più efficiente allocazione delle risorse umane e finanziarie.

Affrontate a grandi linee le difficoltà della P.A. nella fase genetica del rapporto con le imprese, vanno adesso considerate le problematiche che nascono per la P.A. nel caso di emissione di interdittiva nel corso della fase esecutiva del contratto.
In tale evenienza il potere delle P.A. di adottare atti consequenziali all’interdittiva sembrerebbe ancor più chiaramente qualificabile come potere sostanzialmente vincolato.

La giurisprudenza del Consiglio di Stato è, infatti, costante nell’affermare che, in presenza di un’informativa prefettizia antimafia che accerti il pericolo di condizionamento dell’impresa da parte della criminalità organizzata, non residua in capo alla P.A. alcuna possibilità di sindacato nel merito dei presupposti che hanno indotto il Prefetto alla sua adozione, atteso che si tratta di provvedimento volto alla cura degli interessi di rilievo pubblico – attinenti all’ordine e alla sicurezza pubblica – il cui apprezzamento è riservato in via esclusiva all’Autorità di pubblica sicurezza e non può essere messo in discussione da parte dei soggetti che alla misura di interdittiva devono prestare osservanza. Ogni successiva statuizione della stazione appaltante, quindi, si configura dovuta e vincolata a fronte del giudizio di disvalore dell’impresa con la quale è stato stipulato il contratto.
Di norma, dunque, il recesso costituisce un atto necessitato per la stazione appaltante.

Anche in questo caso, però, la normativa antimafia ha previsto una espressa eccezione, che in pratica ha comportato non pochi problemi applicativi.

Si fa salva, infatti, la possibilità che la stazione appaltante decida, in base ad un prudente e motivato apprezzamento discrezionale, di esercitare l’eccezionale potere conferitole dall’art. 94, comma 3, d.lgs. n. 159/2011, in ragione del quale “I soggetti di cui all’articolo 83, commi 1 e 2, non procedono alle revoche o ai recessi di cui al comma precedente nel caso in cui l’opera sia in corso di ultimazione ovvero, in caso di fornitura di beni e servizi ritenuta essenziale per il perseguimento dell’interesse pubblico, qualora il soggetto che la fornisce non sia sostituibile in tempi rapidi”.

Tale quadro normativo incide, evidentemente, sull’onere motivazionale richiesto alle Amministrazioni che adottano provvedimenti di risoluzione ovvero di mantenimento del rapporto. Se, infatti, l’organismo committente decida di risolvere un contratto esso può limitarsi a richiamare l’informativa interdittiva a supporto della surriferita decisione, senza addurre particolari giustificazioni. Viceversa, nel caso in cui, nonostante la presenza di un potenziale inquinamento mafioso cristallizzato nel provvedimento interdittivo, l’interesse pubblico alla completa esecuzione del contratto sia così pregnante da legittimare un’impresa sospetta ad effettuare lavori pubblici, lo stesso Ente ha il dovere di motivarlo adeguatamente e circostanziatamente.

E non solo. L’art. 94, comma 2 del codice antimafia, specifica che a seguito di revoca/recesso dal contratto di appalto, è fatto salvo il diritto al pagamento del valore delle opere già eseguite e il rimborso delle spese sostenute per l’esecuzione della parte restante, nei limiti delle utilità conseguite.

Il dato letterale della norma poteva non prestare il fianco a dubbi interpretativi, visto che dalla stessa si sarebbe potuto desumere che le opere già eseguite dall’impresa dovessero essere pagate, così come le spese sostenute per il rimanente. Anche l’espressione “nei limiti delle utilità conseguite” avrebbe potuto essere agevolmente intesa senza valore escludente: nel senso che tutte le utilità conseguite per ciò che è già stato eseguito devono essere corrisposte.

Anche rispetto ai finanziamenti, contributi ed erogazioni, il codice antimafia prevede, all’art. 92, comma 3, che in mancanza di una informativa liberatoria e nelle more del rilascio della documentazione antimafia, i contributi pubblici e i finanziamenti e le erogazioni ex art.67 sono corrisposti sotto condizione risolutiva (c.d. “clausole di salvaguardia”), con la precisazione che ove dovesse intervenire un provvedimento interdittivo, i soggetti di cui all’art. 83, commi 1 e 2 revocano le autorizzazioni e le concessioni o recedono dai contratti, fatto salvo, anche in questo caso, il pagamento delle opere già eseguite e il rimborso delle spese sostenute per l’esecuzione del rimanente “nei limiti delle utilità conseguite”.

Diversamente da come in linea teorica poteva sembrare, non poche perplessità sono sorte in ordine alle conseguenze insite nel surriferito potere di revoca dell’Amministrazione.

Nel tempo si sono registrati due opposti orientamenti giurisprudenziali, uno estensivo e l’altro restrittivo. Si è dibattuto sulla portata della disposizione: se fosse limitata al solo caso della revoca del contratto, escludendo la diversa ipotesi della revoca del finanziamento; oppure se lo ius ritentionis fosse ammesso oltre che per i contratti di appalto caratterizzati da un nesso di corrispettività anche per i provvedimenti unilaterali di concessione o autorizzazione di finanziamenti o contributi pubblici con un nesso di corrispettività attenuato. Di certo significativa è la posizione assunta dal Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Sicilia nelle sentenze n. 3 e n. 19 del 2019, che propongono una nozione ampia e onnicomprensiva del concetto di “utilità conseguite”. Inteso non solo con riferimento alle utilità economiche direttamente ripetibili dall’Amministrazione come nel caso dei contratti di appalto, ma esteso a quei vantaggi di ordine generale che sono sottesi a qualunque iniziativa privata finanziata dalla P.A. Per contro, il Consiglio di Stato, Sez. III, nelle sentenze n.1108 e n. 5578 del 2018, ha sposato un’interpretazione restrittiva della nozione di utilità conseguite, ritenendo che “non sarebbe dilatabile sino al punto da ricomprendervi anche l’ipotesi del finanziamento andato a buon fine mercé l’integrale realizzazione del programma finanziato, e ciò in quanto in tale evenienza l’interesse pubblico risulterebbe essere soltanto indiretto”.

I due orientamenti si sono incentrati sull’interpretazione della nozione di “utilità”, assumendo la distinzione tra utilità dirette e indirette ovvero tra quelle “direttamente ritraibili dall’amministrazione concedente come nel caso dei contratti di appalto” e quei vantaggi che hanno soddisfatto, anche in via indiretta, l’interesse generale sotteso all’erogazione ma che non di rado “rendono assai evanescente o difficilmente percepibile il riflesso di “utilità su scala collettiva” che lo stesso è in grado di generare”.

È, quindi, intervenuta l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 23/2020 a rinsaldare le fila. Ha, così, chiarito che l’esame ermeneutico degli articoli 92, comma 3 e 94, comma 2, risponde alla regola di stretta interpretazione propria delle norme di eccezione. L’interdittiva antimafia non costituisce un “fatto” sopravvenuto che determina la revoca del provvedimento emanato ovvero la risoluzione del contratto, ma “un mero atto ricognitivo”. Esso consiste, infatti, nell’accertamento dell’insussistenza della capacità del soggetto ad essere parte del rapporto con la pubblica amministrazione, “quella incapacità che – laddove fosse stata, come di regola, previamente accertata – avrebbe escluso in radice sia l’adozione di provvedimenti sia la stipula di contratti”.

L’ambito di applicazione della norma di eccezione relativa alla salvezza dei pagamenti – contenuta sia nell’art. 92 comma terzo, sia nell’art. 94, comma 2 – è secondo la Plenaria strettamente circoscritto ai contratti di appalto in quanto “anche il dato letterale della disposizione” si oppone “ad una sua estensione dai contratti di appalto ai finanziamenti”. Del pari anche il riferimento alle “utilità conseguite” contribuisce ad escludere che la norma possa estendersi anche ai finanziamenti ed ai contributi. (In senso conforme, CGA Regione Siciliana, sent. del 30 marzo 2020, n. 223; TAR Puglia Bari 130/2022; Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio- Sezione Quinta- 16232/2022 del 6.12.2022; TAR Puglia Bari 130/2022 – CGA 304/2023 del 21/04/2023).

Ne consegue che un tale tipo di provvedimento di revoca alla stregua delle ragioni sulle quali si basa, come “decadenza accertativa”, o “revoca sanzionatoria o decadenziale”, non è “assimilabile perciò ad una revoca in senso proprio, con conseguente inapplicabilità della disciplina di cui all’art. 21-quinquies l.n. 241/1990, dal momento che il venire meno del contributo non si collega affatto ad una rinnovata valutazione dell’interesse pubblico, o al sopraggiungere di motivi di pubblico interesse, come accade nelle fattispecie regolate dal citato art. 21-quinquies, ma ad una circostanza, del tutto particolare, basata sulla sopravvenienza di condizioni ostative rispetto alla stessa possibilità di concedere in via definitiva il contributo (assegnato in via soltanto provvisoria)” (Cfr. CGA 335/2023).

È indubbio che tale tipo di interpretazione, per quanto risponda alle esigenze di tenuta del sistema normativo, genera effetti sull’ordine pubblico economico di non poco conto, visto che l’incapacità giuridica parziale ad accipiendum in capo all’operatore attinto da un’informativa interdittiva si propala su rapporti esauriti o che sarebbero dovuti esserlo da tempo, ma che non lo sono stati per ragioni imputabili alla pubblica amministrazione a causa di ritardi nella richiesta o comunicazione di fatti ostativi. In tale senso proprio la già citata sentenza n. 3/2019 del Consiglio di Giustizia Amministrativa si era, infatti, posta la questione della certezza e sicurezza nei traffici giuridici ponendo in risalto il legittimo affidamento in capo all’operatore privato.

La predetta sentenza, infatti, nella parte motiva così si esprime CGA n. 3 del 2019 (Pres. De Nictolis – Rel Simonetti): “Il Collegio non ignora il recente approdo dell’Adunanza Plenaria n. 3/2018 in tema di effetti delle informative antimafia, nel senso che determinerebbero una sorta di incapacità giuridica, impedendo di ottenere contributi, finanziamenti, corrispettivi e persino il pagamento di somme di denaro a titolo di risarcimento dei danni, quantunque aventi titolo in sentenze di condanna passate in giudicato. Ma, prescindendo dall’approfondire un simile orientamento che pone una serie di problemi, anche di teoria generale, di sicuro questo principio di diritto non può valere per i rapporti esauriti o che sarebbero dovuti esserlo da tempo e che non lo sono stati per ragioni imputabili alla pubblica amministrazione. Se così non fosse – si deve rilevare – i ritardi e le inefficienze dell’azione amministrativa sarebbero premiati e persino incentivati, ledendo le garanzie fondamentali delle parti private (la cui fisionomia può essere mutata nel tempo, avendo reciso i vecchi legami, riparato i propri errori, come deve ritenersi sia avvenuto nel caso della società odierna appellante alla luce dell’informativa liberatoria del 2015) e contribuendo a determinare un senso di incertezza e di insicurezza, nei traffici commerciali e nella serietà degli impegni giuridici, che concorre a definire il grado di “legalità” di un Paese e che potrebbe non essere di minor danno dell’insicurezza e del pericolo intollerabilmente originati e alimentati dal fenomeno e dal metodo mafioso.”

Per quanto non siano stati oggetto di attenzione da parte del CGA andrebbero forse anche considerati gli effetti sulle P.A. committenti che per le stesse ragioni- se pur contrarie e opposte a quelle delle imprese- si trovano a dover subire le conseguenze di un “tardivo” adempimento attribuibile sempre alle fila della P.A., ma di tipo autoritativo. Ci si riferisce, infatti, a tutte le problematiche connesse al recupero di somme ed alle criticità collegate ai possibili risarcimenti derivanti da travagliati procedimenti amministrativi e giudiziali, nonché agli altrettanto complessi rendiconti alla Corte dei Conti, che impegnano gli enti territoriali con un dispendio di energie professionali e economiche di non poco conto.

Effetti che, forse, risultano ancora più dirompenti nei casi- anch’essi oggetto di una pronuncia del Consiglio di Stato in AD PLEN -n. 3/2018- in cui la P.A. debba erogare somme di denaro spettanti a titolo di risarcimento del danno, in favore di un soggetto attinto – prima della definizione del giudizio risarcitorio – da un’informativa interdittiva antimafia.

L’art. 67, comma 1, lett. g), del d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, nella formula “altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominati” include anche l’impossibilità di percepire somme dovute a titolo di risarcimento del danno patito in connessione all’attività di impresa.

A tal proposito, la Plenaria afferma che l’obbligazione risarcitoria della Pubblica Amministrazione, definitivamente accertata in sede giudiziaria, resta intatta ed indiscutibile e non può ipotizzarsi alcuna incisione del provvedimento amministrativo sul giudicato. Tuttavia, l’interdittiva antimafia, pur non incidendo sull’obbligazione dell’Amministrazione, grava comunque sulla “idoneità” dell’imprenditore ad essere titolare (ovvero a persistere nella titolarità) del diritto di credito, atteso che lo stesso non può percepire alcuna somma fintanto che resta colpito da una misura interdittiva. L’imprenditore potrà, quindi, accedere alle citate somme solo una volta venuta meno l’incapacità determinata dall’interdittiva.

Anche in questo caso sembra che gli effetti si riverberino solo sulla posizione dell’operatore economico, ma non è così!

La P.A. ha l’obbligo di impegnare le somme corrispondenti a competenza di bilancio a prescindere dalla capacità dell’imprenditore di percepirle nell’anno. E’ facile, allora, immaginare le conseguenze di un tale vincolo di somme- anche per anni- per un bilancio pubblico. Soprattutto i piccoli enti territoriali, infatti, si trovano costretti a impegnare nella spesa corrente somme a scapito della copertura finanziaria dei servizi. Il paradosso è che, a fronte di un vincolo di somme che rimangono inutilizzate per anni, gli enti si trovano costretti a colpire la parte di bilancio più vulnerabile, cioè quella rivolta alla implementazione dei già spesso carenti servizi al cittadino e in particolare quella del cd. Terzo settore.

Sembra calzante in questo caso, al netto del dibattito politico e culturale che ne è disceso, la frase di Cottarelli nel libro “La lista della spesa”: “non possiamo morire di diritto amministrativo”. Effettivamente, però, vi è da sottolineare come le lungaggini burocratiche che spesso vengono addebitate alla P.A., in realtà sono anche subite dalla stessa P.A. che le paga in termini di efficienza ed efficacia.

Solo per dare un ulteriore dato in ordine alla criticità che la P.A si trova a dover affrontare, basta un accenno alle conseguenze derivanti dalle decisioni delle Adunanze Plenarie nn. 6-7-8 del 2023, che sembrano poter effetti solo sull’operatore economico. In verità, anche in questo caso almeno mediatamente condizionano l’operato della P.A.

Come è noto, le Adunanze Plenarie del 2023 hanno affrontato la problematica della interdipendenza tra le informative e il controllo giudiziario a domanda ex art. 34 bis co. 6 d.lgs. 159/2011, ritenendo che: “la pendenza del controllo giudiziario a domanda ex art. 34 bis co. 6 del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, non è causa di sospensione del giudizio di impugnazione contro l’informazione antimafia interdittiva” vista la visione prospettica differente del controllo giudiziario concentrato su una prognosi futura, e l’informativa che cristallizza la storia dell’imprenditore fino al momento dell’adozione del provvedimento. Il dibattito che ne è disceso e che ha riguardato gli effetti sulle imprese non è stato altrettanto approfondito nella parte in cui riguarda gli effetti sulla P.A, che si ritrova per esempio a dover decidere se procedere a revoca e/o risoluzione del rapporto nel caso di una impresa che non viene ammessa al controllo giudiziario ex art.34 bis perché non raggiunge neanche la soglia della cd. “occasionalità” ma attinta da una informativa non sospesa, che nel frattempo è divenuta definitiva. Si realizza così il caso di una impresa che dal punto di vista sostanziale potrebbe essere destinataria di “fiducia” da parte della P.A., ma che ne è inibita dal punto di vista formale. Qual è la P.A. che non temendone le conseguenze “butta il cuore oltre l’ostacolo” superando l’informativa della Prefettura, prima di attendere che la stessa, acquisiti gli elementi della A.G. possa ritornare sui suoi passi?

Le criticità e le difficoltà della P.A., come si è evidenziato, sono ben lungi dall’essere risolte dalle normative recenti e, chi vi parla si pone il dubbio se non sia necessario pensare ad un nuovo ruolo della stessa P.A in un ambito così delicato per l’ordine pubblico economico, ma anche- e soprattutto- per la collettività.

D’altra parte, la riforma P.A. è già stata individuata come un asse portante della normativa sul PNRR perché essa stessa intrinseca a tutte le missioni del piano.

È, allora, forse il caso di ripensare alla P.A. prendendo l’abbrivio dalle recenti riforme che hanno modificato l’asse Autorità-Libertà (con strumenti più duttili di matrice preventiva e di controllo capaci di modularsi in base al differente grado di infiltrazione), così superando la logica del “sospetto” a favore della logica della “fiducia”.

Si tratta di un segno di svolta rispetto alla logica fondata sulla sfiducia (se non sul “sospetto”) per l’azione dei pubblici funzionari, che si è sviluppata negli ultimi anni, generando una forma di “burocrazia difensiva”, spesso descritta con l’efficace immagine del dipendente che ha “paura di firmare”. I funzionari, frenati dal timore delle possibili conseguenze del loro agire, preferiscono astenersi dal farlo, con inevitabile pregiudizio dell’efficienza e, più in generale, del buon andamento dell’azione amministrativa. Spesso, infatti, si è scaricato sul legislatore o sul giudice la soluzione di problemi che, invece, spetterebbe alla P.A. affrontare e risolvere. Si è parlato efficacemente di tendenza negativa ad “amministrare per legge” e “amministrare per sentenza”.

Come ha ben evidenziato anche la Corte costituzionale con la sentenza n. 8 del 2022, la c.d. “paura della firma” e la “burocrazia difensiva” rappresentano una fonte di inefficienza e immobilismo e, quindi, un ostacolo al rilancio economico, che richiede, al contrario, una Pubblica Amministrazione dinamica ed efficiente. È evidente che l’inefficienza della P.A, non assicurando i servizi, si traduce inevitabilmente in un costo sociale.

La P.A. deve riacquisire fiducia e riacquistare consapevolmente il proprio ruolo, esercitandone la connessa responsabilità nel senso etimologicamente riconducibile al respondere latino (o, anche il tedesco Verantwortung), cioè “assumere l’obbligo di dare una risposta” con azioni delle quali ci si deve assumere la paternità e le conseguenze.

La fiducia, infatti, passa attraverso l’assunzione di responsabilità anche del risultato: ogni stazione appaltante ha la responsabilità delle gare e deve svolgerle non solo rispettando la legalità formale, ma tenendo sempre presente che ogni gara è funzionale a realizzare un’opera pubblica (o ad acquisire servizi e forniture) nel modo più rispondente agli interessi della collettività. Il raggiungimento di questo risultato implica il superamento di ogni forma di inerzia e l’esercizio effettivo della discrezionalità di cui la P.A. dispone.

Ciò presuppone la fiducia dell’ordinamento giuridico sulle scelte compiute dalla P.A., alla quale, in assenza di detta fiducia, non si attribuirebbe il potere. Un potere che è dato con un vincolo di scopo, cioè: servire la collettività. Si ricorda a tal proposito che Jhering diceva, per l’appunto, che nell’endiadi “pubblica amministrazione” il predicato pubblico è la stessa ragion d’essere dell’amministrazione.

Andrebbe, quindi, ripensata la P.A., non più come monade ma come ganglio fondamentale del sistema antimafia, ormai concepito come esercizio ordinato dei doveri tesi al comune fine di risanamento e/o di recupero. Essa stessa deve essere risorsa e non intralcio al corretto funzionamento delle procedure.

Scomodando Turati, basterebbe ricordarsi che “le ferrovie non stanno lì per dar lavoro ai ferrovieri, ma per trasportare la gente”.

Maria Stella Porretto